Dentro “Dojo Song”: i Monkeys From Space si raccontano


Immaginate di entrare in un dojo galattico, tra suoni distorti, alieni svagati e una banana sul tatami: è qui che nasce “Dojo Song”, il nuovo singolo dei Monkeys From Space. Un brano figlio di notti insonni, improvvisazioni visionarie e una creatività senza coordinate, dove l’assurdo si mescola all’introspezione e l’ironia diventa bussola emotiva. Tra synth acidi, testi che flirtano con la fisica quantistica e videoclip ipnotici, i Monkeys From Space ci invitano a perderci nel loro universo surreale — un luogo dove la musica è rito, gioco, delirio e meditazione.

In questa intervista ci portano nel loro “dojo disordinato”, raccontandoci come nasce una canzone dallo spazio e perché, anche tra nonsense e glitch, può scattare una connessione autentica.

Il titolo del vostro singolo, "Dojo Song", richiama immediatamente l'immagine di un dojo. Che significato ha il concetto di disciplina e meditazione nella vostra musica?
Il titolo è nato un po’ per scherzo, ma ci siamo accorti che ci rappresentava più di quanto pensassimo. Il “dojo” è lo spazio in cui si pratica, si sbaglia, si ripete ed è un po’ quello che facciamo anche noi con la musica. La disciplina c’è, ma è una disciplina strana: fatta di sogni collettivi, di intese silenziose, di suoni scelti con cura anche quando sembrano usciti da un cartone animato. La meditazione, invece, arriva nei momenti in cui tutto si incastra e ci perdiamo nel suono, come in trance. Quindi sì, forse il nostro dojo è un po’ disordinato, con le pareti tappezzate di poster spaziali e una banana sul tatami… ma alla fine è lì che troviamo la nostra concentrazione.

Nel brano si fa riferimento a un "salto" e a una dinamo entropica. Come vi piace esplorare concetti astratti e scientifici nei vostri testi?
Ci piacciono i concetti astratti perché non stanno mai fermi. Sono come particelle impazzite, e noi proviamo a catturarle con le parole prima che svaniscano. “Il salto” può essere un cambiamento, una fuga, un cortocircuito interiore. La “dinamo entropica” l’abbiamo immaginata come un motore che funziona solo grazie al caos: più ti perdi, più vai avanti. Nei testi ci divertiamo a mischiare linguaggio scientifico e visioni oniriche, perché ci affascina l’idea che dietro la poesia ci sia anche un po’ di fisica, e viceversa. È un modo per rendere l’assurdo ancora più reale o il reale ancora più assurdo. In fin dei conti è musica dallo spazio, e lo spazio è un posto strano baby…

In che modo l’ironia si intreccia con l'intensità emotiva delle vostre canzoni, creando un mix che rende unica la vostra proposta musicale?
Per noi ironia ed emozione non sono opposti, ma due facce della stessa crisi esistenziale. L’ironia ci permette di affrontare anche i momenti più intensi senza prenderci troppo sul serio, mentre l’emozione dà peso a quello che, altrimenti, sembrerebbe solo uno scherzo ben riuscito. Ci piace pensare che chi ascolta possa farsi una risata amara e poi, magari, commuoversi due versi dopo senza nemmeno accorgersene. È lì che succede la magia: quando il nonsense incontra qualcosa di vero, che pulsa sotto la superficie.

Il video accompagna il brano con una narrazione psichedelica. Come vi approcciate alla parte visiva quando realizzate i vostri videoclip?
Quando lavoriamo ai videoclip, partiamo dallo stesso principio che usiamo per la musica: niente deve essere troppo letterale, ma tutto deve avere un senso… anche se solo dopo la terza visione. Ci piace l’idea di costruire mondi visivi che amplifichino la psichedelia del suono, come se il video fosse una porta dimensionale che ti fa entrare nella mente della canzone. Non cerchiamo di “spiegare” il brano, ma di aprirlo, distorcerlo, riempirlo di simboli, glitch, frutta improbabile e altri oggetti non identificati. È un processo molto viscerale e spesso istintivo: se una scena ci fa ridere, ci inquieta o ci ipnotizza… allora funziona!

Come riuscite a mantenere una connessione autentica con il pubblico pur trattando temi tanto surreali e fuori dal comune?
Probabilmente perché, in fondo, anche il pubblico si sente un po’ fuori asse ogni tanto. Noi cerchiamo di essere sinceri, anche quando parliamo di dinamo entropiche o viaggi cosmici: dentro quei mondi strani c’è sempre un’emozione reale, una sensazione condivisibile. E poi, l’autenticità non dipende dai temi, ma da come li vivi. Se ci credi davvero in quello che stai facendo, anche una banana spaziale può commuovere. E quando sul palco vediamo qualcuno che ride e poi si ferma a pensare… bè forse è scattato qualcosa tra noi e lui e forse una qualche forma di connessione c’è.

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